È un dialogo continuo con il mito che non significa, però, una restituzione nostalgica, ovvero un semplice remake. Migliozzi è sempre attento a marcare la presenza nella contemporaneità che è propria della sua arte. E questo attraverso una serie di segni - o registri di linguaggio e di stile - che rilevano la duplicità della rappresentazione, il suo essere ora e insieme in un altro tempo, qui ed altrove. Così si spiega il fatto che sulla pietra lavica “aggetti” quasi sempre un riquadro - come di tela - che contiene e incornicia le figure ma che pure è sistematicamente sorpassato, sembrando implicare in tal modo un rapporto vitale, uno scambio ininterrotto tra ciò che è rappresentazione e ciò che, oltre la rappresentazione, proviene dalla e si prolunga nella storia infinita della
materia, della vita di tutti. Così accade necessariamente che gli elementi della composizione cromatica, lavorati ulteriormente dalla cottura, presentino una plasticità eminentemente concava - in controcanto alla chiusura convessa dei personaggi in scena - che indica un desiderio di incontro con altre esperienze, che lancia un messaggio di apertura, di accoglienza. Così si verifica una forte trascorrenza delle immagini, ora come risistemate in aggregati figurali riconoscibili, ora espanse in agglomerati astratti, nei quali la forma si dissolve in energia di colore.
E così, come in filigrana, per dinamiche di affioramenti e di sovrapposizioni, accanto e sopra gli oggetti e i corpi umani e le azioni raccontate si profilano doppi che hanno i tratti di silhouettes candenti appena accennate, presto evanescenti: perchè due sono i piani dell’opera di Nicola Migliozzi: il già stato - che eternamente rimane nella memoria, come la pietra - e l’essere nel tempo che ci appartiene, il mito e la storia, l’impronta di un vissuto collettivo e la vicenda individuale, la forma della rappresentazione e la traccia volatile del sogno. Il sogno a cui sembrano alludere, nella loro tenuità che a mano a mano si assottiglia, le linee bianche di impalpabili figure indefinite, forse il respiro sommesso di movimenti dell’anima.


Marcello Carlino