Ma certo è anche, e soprattutto, che una costante e un nucleo di fondazione e una durevole condizione necessitante di queste opere di Migliozzi si possono rinvenire in un dialogo continuo con il mito.
Corpi che hanno un profilo classico, da sempre inscritto nella nostra inconscia rubrica di archetipi, s’uniscono sotto lo “scudo” di un eros che sembra riempirsi di un eterno sapore rituale. La lira, ora sospesa come attendendo il citaredo, ora incline nelle mani del cantore, convoca Apollo e lo riflette nell’immagine di Orfeo, che si batte per riportare alla vita la sua Euridice; e intanto rammenta che queste figurazioni si orchestrano in ascolto di una musica, di un ritmo sacrale (di una sacralità tutta umana) che ne intona il tempo. Il verde di piante intrecciate, in una foresta che è uno scoppio di luce, sembra
avvistare un’isola: forse l’approdo di un Ulisse, forse il naufragio che circoscrive il luogo di una prova di iniziazione - anch’essa rituale - del Robinson che è in ogni uomo, forse un irraggiungibile paradiso perduto.
E sono ulissiache - ulissiache come si stagliano nei sussidiari che furono e si conservano nell’immaginario collettivo - le navi le cui sagome sono dirimpettaie di volti di eroi già visti nell’arte fittile greca. Il rosso, denso, talvolta gridato, ha una declinazione multipla, tra un’ora meridiana incandescente e un sinfonico tramonto infuocato; non gli è mai spaiato, tuttavia, il sentore di un’eruzione che prende, che insegue, che sconvolge: che distrugge con il fiato abbruciante della morte, ma rigenera con le semenze di una nuova vita e rianima con la scossa calda della passione. Di mito in mito, e di immagine in immagine, citazioni volontarie, rinvii come in automatico a topoi della pittura occidentale e come una cultura antropica di taglio occidentale implicita nella tecnica di trattamento - e una sorta di memoria della materia - attraversano sotto traccia e punteggiano le singole tavole di pietra lavica, intrattenendole appunto in conversari di discorso mitopoietico.