Nicola Migliozzi | L’ultimo dei classici


Il valore della tecnica, che emerge dalla ricerca di Nicola Migliozzi (1952, Calvi Risorta), è una questione centrale e controversa per la cultura artistica contemporanea. In più di quarant’anni, l’artista ha approfondito diversi procedimenti pittorici – a olio, su pietra lavica, ad affresco e a secco –, ma anche scultorei e ceramici (tradizionali e raku). Egli sceglie, infatti, di introdurre l’itinerario espositivo di ogni sua personale con un unico dipinto a olio, per raccontare gli inizi del suo percorso di progressivo avvicinamento alla pratica artistica: Esuberanza vitale è un olio su cartone, che rappresenta una giunonica ragazza africana a seno nudo su uno sfondo neutro, bianco a contrasto con le pennellate bronzee del corpo.

 

La scelta di questo soggetto è legata a un problema cromatico, affrontato negli anni da Migliozzi cercando gradualmente di giungere alla corretta resa coloristica della pelle scura. Accanto alla tecnica, l’opera riflette sul mito, implicito in ogni suo lavoro: quello della maternità, di una giovane con già due figli a vent’anni il cui corpo è segnato da questa fertile vitalità. Il mito domina tutte le sue scelte iconografiche, ispirate ai testi della classicità (a Omero, Ovidio e Virgilio), i cui personaggi sono ritratti nei momenti più intensi e tesi delle loro storie: come Polifemo antropofago; Proserpina rapita da Plutone sulle rive del lago Pergusa; La lira di Orfeo dopo avere perduto Euridice negli inferi; Terra tremante, con il dio Vulcano, il Vesuvio, attorniato da una fila di case in procinto di crollare; e Amore ovidiano, il soggetto più rappresentato poiché motivo ispiratore dell’artista. Nella mitologia, egli spiega, si ritrovano molti dei temi attuali, ad esempio quello dello stupro ritratto in Preda d’amore o in Muscolare approccio, o altre immagini di umanità che, seppur appartenenti all’iconologia classica, non sono distanti da argomentazioni moderne. Oltre alle iniziali ricerche a olio, su cui ancora continua a lavorare, Migliozzi indaga su altre due tecniche: la pittura su pietra lavica, che parte dai materiali del suo territorio, le rocce del Vesuvio, estratti per più di un secolo dalle fabbriche del napoletano attive nell’edilizia. L’artista ne cuoce le sottili lamine (di pochi centimetri), le dipinge con gli stessi smalti utilizzati nella ceramica in grado di creare delle grafiche spesse e rilevate di qualche millimetro dal fondo scuro, e poi le ricuoce in forno a quasi mille gradi, augurandosi ogni volta che il risultato sia leggibile e non gli imponga di ricominciare da capo con una nuova lamina; trattandosi di un percorso di progressiva crescita tecnica. Migliozzi sceglie di esporre in ogni mostra solo nuovi lavori per raccontare il risultato di questo itinerario di costante confronto con la pratica d’arte. 

Lo studio delle pitture pompeiane lo porta invece a interrogarsi sul mistero della loro fattura considerandone la resistenza al tempo, ormai millenario, e al trauma del contatto con la lava vulcanica; con questo obiettivo avvia quindi una terza forma di sperimentazione pittorica che procede per ponderate deduzioni empiriche: la tecnica a encausto è da escludersi poiché la cera si sarebbe dispersa nel magma vulcanico, così come quella ad affresco, dato che non vi è traccia di cartone o di sinopia al di sotto dei dipinti. L’artista giunge quindi a un’ipotesi, ma non a una conclusione: quella di una tecnica a secco, una sorta di tempera ma senza colla, che continua a testare nelle sue ricerche per meglio comprendere questa particolare via del dipingere alla maniera antica. Un’analoga attitudine sperimentale si ritrova anche nella sua ceramica. Oltre alla tecnica tradizionale, egli indaga quella giapponese, la raku: dopo una cottura unica a temperatura molto elevata, il pezzo riposa al chiuso nella segatura, bagnato con l’olio per far erompere il fumo. Si tratta di uno dei procedimenti più interessanti per l’artista, poiché il risultato è un’opera con dei riflessi metallici, oro, rame e argento che le conferiscono un sapore secolare. La superficie non è liscia e levigata, ma materica e spessa, proprio perché egli vuole valorizzare il carattere plastico dell’oggetto ceramico; anche con la tecnica tradizionale l’effetto è il medesimo, a cui si aggiunge la rottura del colore: a volte, infatti, durante le cottura, una macchia rossa si apre con il calore e ne fuoriesce una nera, i cui sviluppi sono osservati dall’artista, opera dopo opera, e quindi controllati e utilizzati per una finalità espressiva intenzionale. I suoi lavori sono concreti, tutti. Il loro spessore, oltre che plastico, emerge dal segno, dal solco di una lenta e progressiva indagine sui processi artistici. Bisogna superare la tecnica, così fortemente marginalizzata, a suo parere, nell’odierna cultura artistica, ma anche conoscerla per poterla trascendere; per questo egli prosegue meticolosamente nella sua ricerca. L’idea racchiusa nelle sue opere risiede nel mito, quello mediterraneo, che egli coglie anche nella necessità di un contatto e di una manipolazione del suo progetto; un mito di cui valorizza la modernità, discostandosi dalla tendenza corrente che lo considera come un’eredità distante e inanimata. Forse Migliozzi è uno tra gli ultimi classici, oppure tra quelli che, citando Salvatore Settis, guardano al “classico” «come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno». 


Caterina Toschi   Docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso 

 l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale